Al largo delle coste caraibiche del Venezuela, si sta consumando un dramma silenzioso e paradossale: non si tratta di una battaglia navale convenzionale, ma di una paralisi logistica che sta trasformando la geografia stessa dell’industria petrolifera del Paese. Le acque turchesi che bagnano il Sudamerica si stanno popolando di giganti d’acciaio immobili: petroliere cariche di greggio che non hanno dove andare.
La notizia, che sta rimbalzando tra gli analisti del settore energetico, dipinge un quadro critico: la compagnia statale PDVSA (Petróleos de Venezuela) è costretta a ricorrere allo stoccaggio galleggiante su larga scala: in termini semplici, quando i magazzini a terra sono pieni fino all’orlo e le navi non possono partire per consegnare la merce ai compratori, le petroliere stesse diventano enormi serbatoi fluttuanti. È una misura disperata, costosa e rischiosa, che segnala un sistema vicino al punto di rottura.
L’epicentro di questa congestione è il terminal di Jose, il centro delle esportazioni petrolifere venezuelane: è qui che arriva il greggio extra-pesante estratto dalla Faja dell’Orinoco, la cintura petrolifera che custodisce alcune delle riserve più vaste del pianeta. Normalmente, questo flusso continuo di oro nero verrebbe caricato sulle navi e spedito verso i mercati internazionali, specialmente in Asia, ma, nelle ultime settimane di fine 2025, il meccanismo si è inceppato.
I dati sono impietosi: i serbatoi di stoccaggio a terra hanno raggiunto livelli critici, superando i 12 milioni di barili solo nel terminal di Jose, portando l’inventario totale del paese a cifre che non si vedevano da mesi (oltre 22 milioni di barili). Con i depositi a terra saturi, l’unica opzione per non fermare i pozzi estrattivi (operazione che comporterebbe danni tecnici enormi e costi di riavvio proibitivi) è continuare a pompare petrolio nelle navi, per poi lasciarle all’ancora in attesa di tempi migliori.
Ma perché le navi non partono? La risposta risiede nella recrudescenza delle tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti: Washington ha intensificato la pressione sul governo, prendendo di mira quella che viene definita la flotta fantasma (shadow fleet) ovvero navi che operano spesso spegnendo i transponder o cambiando bandiera per aggirare le sanzioni internazionali.
Gli armatori, a questo punto, temendo di vedere le proprie navi confiscate o di incorrere in sanzioni secondarie, si rifiutano di attraccare in Venezuela o di trasportarne il greggio. Il risultato è una flotta di navi cariche che non osano muoversi e altre che arrivano vuote ma vengono respinte o intercettate prima ancora di caricare.
Questa situazione di stallo ha conseguenze devastanti per un’economia che dipende quasi interamente dalle entrate petrolifere: ogni barile che rimane fermo in mare è denaro contante che non entra nelle casse dello Stato, aggravando una crisi umanitaria ed economica già profonda.
C’è, tuttavia, un’eccezione in questo scenario bloccato: le operazioni della Chevron. La compagnia americana continua a operare grazie a licenze specifiche, rappresentando l’unico vero canale ufficiale e sicuro di esportazione che mantiene i livelli di inventario gestibili nella parte occidentale del paese. Ma per il resto della produzione nazionale, pari a circa 1,1 milioni di barili al giorno, la situazione è di pura sopravvivenza logistica.
Il ricorso allo stoccaggio galleggiante non è una novità assoluta per il Venezuela, che ha già utilizzato questa tattica nei momenti più bui delle crisi passate, ma la scala attuale e il contesto di un blocco navale di fatto rendono la situazione particolarmente volatile.
