07.11.2025
Il serbatoio di Zafar Mahal: come l’ASI vuole riaccendere il giardino del Lal Qila

Nel centro Red Fort, là dove i canali attraversavano il grande Hayat Baksh Bagh come vene d’acqua che tenevano vivo il palazzo, c’è un padiglione in pietra rossa che porta il nome dell’ultimo imperatore Mughal.

Zafar Mahal, costruito nel 1842 da Bahadur Shah Zafar, non è un monumento isolato ma il fulcro di un paesaggio progettato per la stagione dei monsoni: ai due estremi, i padiglioni Sawan e Bhadon; al centro, una vasca con il chhatri di Zafar collegato da un piccolo ponte, immortalato in una veduta ottocentesca di Ghulam Ali Khan. Da anni quel disegno era diventato una memoria, perché la pelle idraulica del giardino si era seccata, le superfici si erano screpolate, le fontane tacevano.

Oggi, l’Archaeological Survey of India annuncia un progetto di rinascita dal valore di 2,4 crore di rupie: riportare l’acqua attorno al padiglione, riaccendere le fontane, valorizzare l’illuminazione e intervenire sulle celle interne del lato nord del complesso. È un programma con tempi concreti (cinque mesi) e una regia che mescola tecniche tradizionali e accorgimenti contemporanei.

Il cantiere è già partito dal togliere gli strati di calcestruzzo colati in decenni di manutenzioni emergenziali, che avevano sigillato la superficie della vasca e soffocato la sua funzione. L’ASI ha suddiviso l’intervento in due capitoli: circa 1 crore per la riattivazione del bacino con le sue fontane e 1,41 crore per il consolidamento delle celle interne sul lato settentrionale.

E’ un ripristino funzionale dell’intero organismo idraulico del giardino, perché intorno allo specchio d’acqua si misurava, storicamente, la qualità dell’aria, della luce e del fresco che rendevano abitabile il palazzo nelle settimane più torride.

La promessa di far tornare l’acqua sta tutta nei materiali e nelle tecniche scelte. Laddove la modernità aveva steso cemento e mastici, il progetto torna al sapere dei cantieri imperiali: lastre di arenaria rossa per rifinire e proteggere, letti di inerti con leganti naturali, una membrana geotessile resistente ai microrganismi a filtrare e drenare, soprattutto l’uso del bel giri (la polpa del frutto di Aegle marmelos ) come additivo organico in malte e intonaci a base di calce. È un ingrediente antico che migliora coesione, elasticità e durabilità, e che ridà al manufatto la capacità di muoversi con l’acqua invece di spaccarsi contro di essa. È un restauro che parla la stessa lingua costruttiva del monumento, senza rinunciare a quei presidi discreti che ne allungano la vita.

Chi visita oggi il Red Fort vede la fatica del tempo: conci mancanti, laterizi esposti, crepe nei filari, un crollo parziale nel 2020 che aveva lasciato cicatrici evidenti, poi qualche risanamento nel 2021 attorno al vicino Rang Mahal mentre l’area di Zafar rimaneva in sospeso. Anche per questo la riattivazione della vasca ha un valore che supera l’ornamento: è il punto di un sistema dove l’ombra, l’evaporazione e il rumore dell’acqua costruivano comfort prima ancora che fosse inventata la parola microclima. Restituire acqua a Zafar Mahal significa restituire senso all’intero giardino della “vita che dona”, rimettendo in relazione padiglioni, percorso e sosta, luce e riflesso.

La scelta di intervenire con una timeline serrata, cinque mesi dall’avvio, risponde a due urgenze. La prima è conservativa: fermare l’azione combinata di infiltrazioni e calore che, in assenza d’acqua, ha reso più vulnerabili le superfici lapidee. La seconda è culturale: rimettere il pubblico al centro di un’esperienza del forte che non sia solo fatta di mura e musei, ma anche di giardino vivo, con un’illuminazione che riconsegni di sera la filigrana del padiglione e un circuito di fontane capace di raccontare il rapporto, antichissimo, tra architettura e stagione monsonica. È un modo di riportare la gente “dentro la sezione” del progetto originario, non davanti alla sua facciata.

Per apprezzare il valore di ciò che sta per accadere bisogna rimettere Zafar Mahal nel suo paesaggio. Infatti, il giardino di Shah Jahan non era un fondale, ma un dispositivo ambientale e simbolico: l’asse d’acqua chiamato “qarina” organizzava gli equilibri di simmetria, mentre il padiglione centrale, dedicato dal sovrano-poeta Zafar, dava nome e identità all’intero spazio. Le fontane non erano solo spruzzi ornamentali, ma strumenti di raffrescamento e suono; la vasca era una lastra di cielo a livello del terreno, il luogo dove l’architettura imparava a specchiarsi e a misurarsi con la luce.

La rinascita dell’acqua nel Red Fort, peraltro, dialoga con un movimento più ampio che a Delhi guarda ai bacini storici come infrastrutture urbane e culturali da riportare in vita. Pochi chilometri più a sud, nel quartiere di Mehrauli, la comunità ha lavorato alla rigenerazione dell’antichissimo Hauz-i-Shamsi, riportando attenzione sulla rete di vasche, baoli e canali che hanno modellato la pianura per secoli e che oggi possono contribuire a mitigare isole di calore e siccità. È un cambio di prospettiva che non oppone tutela e uso, ma li intreccia, riconoscendo all’acqua la capacità di fare paesaggio e cittadinanza.

Vale la pena chiarirlo: il nome “Zafar Mahal indica anche un altro sito, il palazzo estivo dei Mughul a Mehrauli, oggi in rovina e spesso citato nelle cronache sullo stato della tutela. Il progetto annunciato dall’ASI riguarda invece il padiglione Zafar all’interno del Red Fort, nel perimetro dell’Hayat Baksh Bagh. Sono due luoghi diversi uniti da una stessa genealogia e da uno stesso imperatore, e proprio per questo frequentemente confusi.

Quando l’acqua tornerà a lambire i gradoni della vasca e a infrangersi sulle figure scolpite della pietra rossa, Zafar Mahal potrà riprendere la sua funzione primaria: essere un centro di gravità per il giardino, una camera d’eco per il tempo lento della visita, una lezione aperta su come il clima, prima di essere combattuto, può essere coltivato.