Parliamo di recipienti in pressione per idrogeno compresso a 350-700 bar, di cisterne criogeniche per il liquido a -253°C, di sistemi ibridi pensati per nave, treno, camion e per lo stoccaggio stazionario: mettere l’idrogeno al lavoro in sicurezza, ovunque serva, con ingombri e pesi compatibili con l’applicazione e con costi che abbiano senso per la filiera.
Se guardiamo ai numeri che circolano nelle analisi di mercato, la prima impressione è duplice: il perimetro è in forte espansione, ma le stime variano a seconda di cosa si misura (solo i serbatoi o l’intero “energy storage” a base H₂) e di quali segmenti si includono.
Una sintesi prudente viene da più fonti: alcune ricerche collocano il mercato dei serbatoi per idrogeno su valori intorno ai 18-22 miliardi di dollari nel 2024 con una traiettoria verso ~27 miliardi al 2031, un passo che racconta una crescita costante ma non esplosiva quando si isola il componente tan” dal resto della catena del valore; altre analisi, invece, restringono il campo ai soli tanks per trasporto o, all’opposto, allargano lo sguardo all’hydrogen energy storage in senso lato e producono cifre molto più alte e CAGR vistosi. Ma confrontare i numeri ha senso solo se si confrontano davvero i confini del perimetro misurato.
Dentro il perimetro più concreto, quello dei serbatoi veri e propri, è il trasporto a comprimere i tempi, perché i veicoli commerciali pesanti e le flotte in servizio intensivo cercano autonomia e tempi di rifornimento rapidi: da qui l’interesse per i sistemi a 700 bar di tipo IV (liner polimerico + avvolgimento in composito), più leggeri dei corrispettivi metallici e capaci di aumentare energia a bordo senza penalizzare troppo la portata utile. Il fenomeno non riguarda solo l’on-road: anche treni regionali, mezzi off-highway e parte della cantieristica stanno testando soluzioni in pressione, con layout e pacchi bombole che entrano in vani ristretti e devono convivere con vibrazioni, urti, cicli termici e requisiti manutentivi severi.
L’idrogeno liquefatto sta uscendo dai soli grandi centri di produzione per raggiungere applicazioni di mobilità e micro-hub logistici, perché il fascino dell’LH₂ è chiaro: enorme densità energetica rispetto al gas compresso. Il rovescio della medaglia sono le perdite per boil-off, la gestione della sicurezza a temperature estreme e l’inevitabile complessità delle cisterne a doppia parete, con vuoto spinto e materiali idonei alla contrazione termica. Anche qui i numeri della domanda sono in salita, sospinti da corridoi pilota nel marittimo e nell’aerospazio e da progetti di rifornimento in cui il liquido diventa vettore di trasporto per poi essere evaporato vicino all’uso finale. Gli analisti si aspettano tassi di crescita più sostenuti nel sotto-segmento LH₂ rispetto al solo “compressed”, proprio perché i nuovi corridoi logistici partiranno da capacità piccole oggi ma con scaling rapido man mano che la rete si infittisce.
Quando si passa dai mercati alle officine, l’ingegneria resta la discriminante, perché il serbatoio ideale per H₂ compresso deve tenere insieme quattro vincoli: sicurezza intrinseca in caso di urto o incendio, resistenza alla permeazione dell’idrogeno (che attraversa i materiali più facilmente di altri gas), peso contenuto e costo accettabile. L’evoluzione dei compositi, con pattern di avvolgimento studiati per ottimizzare gli sforzi circonferenziali e longitudinali, ha reso possibile ciò che dieci anni fa sarebbe stato improponibile in termini di rapporto massa/stoccaggio: ma l’ingresso in flotta di migliaia di mezzi impone un salto di qualità anche nel controllo qualità (defetti di avvolgimento, micro-cricche al liner, compatibilità con cicli rapidi di carica/scarica), nella sensoristica per il monitoraggio in esercizio e nelle routine di collaudo periodico. È uno dei motivi per cui molte stime vedono il segmento “trasporto e logistica” come traino, con un moltiplicatore di volumi che non si ritrova nei soli impianti stazionari.
Sul fronte della domanda, ci sono due forze che tirano nella stessa direzione ma con orizzonti diversi: la prima è a breve, ovvero decarbonizzare segmenti hard-to-abate dove batterie e infrastrutture elettriche non sono ancora competitive per massa, cicli e tempi di fermo (pensiamo a lungo raggio pesante, linee ferroviarie non elettrificate, movimentazione portuale). Qui i serbatoi sono un fattore abilitante immediato: se esiste il veicolo e il punto di rifornimento, serve un sistema di stoccaggio che funzioni dal giorno uno. La seconda forza è a lungo: progetti di rete per l’idrogeno, blending e cavern storage che, quando maturano, tendono a trascinare anche i volumi dei serbatoi stazionari e mobili; gli investimenti nei terminal e nelle infrastrutture gas/industriali segnalano che gli operatori non stanno aspettando la domanda perfetta per muoversi, ma stanno costruendo capacità con una visione al 2030-2035.
In mezzo, restano i nodi da sciogliere: i costi dei materiali avanzati, l’energia necessaria per comprimere o liquefare l’idrogeno, gli standard e le procedure di ispezione periodica, la formazione di chi dovrà manutenere questi sistemi, la convivenza con normative che si aggiornano mentre i prodotti entrano sul mercato. Sono tutti fattori che spiegano perché alcune ricerche presentino un CAGR moderato quando si guarda solo ai serbatoi, e perché altre, più estese all’energy storage, mostrino crescite apparentemente vertiginose. Le due narrazioni non si escludono perché misurano grandezze diverse: il filo rosso è che l’adozione reale, quella che mette chilometri e ore di servizio sui contatori, richiede componenti maturi, affidabili, ripetibili a costi compatibili.
Il mercato dei serbatoi per idrogeno vede che i numeri macro dicono che la domanda cresce e i numeri micro dicono che vince chi porta sul campo sicurezza, massa contenuta, cicli di vita lunghi e costi in discesa. È una transizione fatta di gigapascal e kelvin negativi, di fibre avvolte e di vuoti criogenici, ma, soprattutto, è una filiera che sta imparando a fornire un bene a un mondo che vuole usarlo in modo diverso rispetto a ieri.