26.09.2025
Dal fritto al serbatoio: la promessa energetica dell’HVO, olio vegetale idrogenato

L’olio usato, residuo dei processi di cottura, e altre fonti biologiche possono essere convertiti in un tipo di diesel rinnovabile chiamato HVO – Hydrotreated Vegetable Oil. Alla base del processo c’è un concetto che oggi sembra quasi poetico: dare nuova vita a scarti apparentemente insignificanti, come olio da cucina e grassi animali, trasformandoli in carburante per motori e macchine diverse.

Il metodo impiegato consiste nell’utilizzare idrogeno per “idrotrattare” le biomasse, eliminando impurità e saturando le molecole per ottenere un combustibile che può essere immesso direttamente nelle infrastrutture già esistenti, senza richiedere modifiche agli strumenti meccanici.

Questo è uno dei vantaggi più apprezzabili: si tratta di una soluzione “drop-in” rispetto all’attuale rete di distribuzione del gasolio, rendendo l’adozione più facile e meno costosa.

Uno degli ambiti in cui l’HVO è già destinato a fare la differenza è quello del trasporto pesante, ossia camion, autobus, flotte a lungo raggio: tali mezzi sono tra i più difficili da elettrificare, per via della massa delle batterie, dell’autonomia richiesta e dei costi; pertanto, avere un’alternativa rinnovabile che funzioni con i motori diesel esistenti rappresenta un ponte utile verso la decarbonizzazione. In Spagna, ad esempio, un esperimento su autobus con HVO ha già dimostrato cali significativi nelle emissioni di CO₂ in contesti urbani.

Un altro settore che trae vantaggio dall’HVO è quello dell’energia di riserva: data center, ospedali, infrastrutture critiche che non possono permettersi blackout e che solitamente dispongono di generatori diesel. Quest’ultimi possono essere alimentati con HVO, riducendo così le emissioni anche in quei momenti, spesso poco considerati, in cui il consumo non è al massimo ma l’operatività è essenziale. Aziende come Amazon e realtà legate all’informatica stanno già sperimentando questa strada.

Nel settore agricolo, poi, l’elettrificazione delle macchine è spesso impraticabile, perché trattori, mietitrebbie e altri mezzi operano in ambienti difficili, per molte ore, e con carichi gravosi: per queste ragioni, l’HVO può intervenire come alternativa intermedia, verde, che consente di continuare a usare le apparecchiature esistenti ma con un’impronta ambientale più leggera. Secondo le stime, l’agricoltura in Unione Europea genera una quota significativa delle emissioni e il passaggio a carburanti più puliti per le attrezzature contribuisce concretamente alla riduzione complessiva.

Il commercio marittimo, anch’esso sotto pressione per le normative sulle emissioni, è un campo ancora in fase esplorativa per l’HVO: attualmente, il trasporto via mare rappresenta circa il 3% delle emissioni globali, ma l’adozione di biocarburanti liquidi come l’HVO è ancora limitata, anche perché la disponibilità è scarsa, i costi elevati e l’infrastruttura per stoccaggio e distribuzione non è sviluppata ovunque. Comunque, alcuni operatori navali hanno già iniziato a sperimentare l’HVO, come i traghetti nella baia di San Francisco.

Nel contesto dell’edilizia e dei cantieri, dove macchine e generatori diesel sono all’ordine del giorno, l’adozione dell’HVO può ridurre l’impatto ambientale delle attività più concrete, materiali e visibili. In Gran Bretagna, ad esempio, il settore delle costruzioni ha offerto impegni per far sì che entro l’anno tutti i biocarburanti usati nei cantieri siano certificati come sostenibili: è un modo per intervenire sul termine della catena, ovvero non solo produrre carburanti più puliti, ma assicurarsi che provengano da fonti che non danneggino ecosistemi né spingano per deforestazioni.

Eppure, come ogni tecnologia emergente, l’HVO ha di fronte ostacoli: la capacità produttiva non è ancora vasta, i costi rimangono alti e le materie prime, come olio usato, grassi, fonti vegetali, non sono infinite. C’è il rischio che, senza regolamentazioni rigorose, la domanda spinga verso coltivazioni dedicate su terreni che prima ospitavano foreste o coltivazioni alimentari, causando impatti devastanti su biodiversità e sicurezza alimentare; serve una filiera ben governata, con norme forti e incentivi che evitino che il “green” diventi una scusa per pratiche insostenibili.