19.12.2025
La demolizione del serbatoio pensile di Castel Bolognese

Ci sono infrastrutture che, per decenni, fanno il loro lavoro in silenzio e poi restano lì, come segni permanenti del passato: non più davvero utili, ma ancora capaci di orientare lo sguardo e la memoria di chi abita un luogo. A Castel Bolognese, in via Ravenna, il serbatoio pensile (più propriamente, la torre piezometrica) appartiene a questa categoria di presenze urbane: un’opera nata per garantire pressione e riserva alla rete idrica dell’acquedotto, che negli anni ha smesso di svolgere la sua funzione e che ora si avvia a uscire di scena, con una demolizione programmata e una serie di inevitabili conseguenze pratiche per la viabilità.

Il serbatoio pensile in via Ravenna verrà demolito e, per consentire l’esecuzione dei lavori, il Comune dovrà chiudere al traffico un tratto della strada, precisamente tra via Mazzini e via Primo Maggio, dal 15 al 23 dicembre. È una chiusura temporanea, delimitata nel tempo, ma sufficiente a cambiare le abitudini di chi percorre quotidianamente quell’asse e a imporre una riorganizzazione dei flussi. Per i residenti nel tratto interessato dalla chiusura verrà garantito l’accesso ciclo-pedonale, mentre la circolazione nelle vie adiacenti è indicata come inalterata, cioè senza stravolgimenti strutturali, oltre alla porzione direttamente coinvolta.

Il punto più interessante, per capire la portata della scelta, è la ragione stessa della demolizione ovvero che la torre è in disuso da tempo: non solo non è più utilizzata per la rete dell’acquedotto, ma non risulta neppure più impiegata dai gestori di antenne per le telecomunicazioni, un destino piuttosto comune per queste strutture, che talvolta vengono riciclate come supporti tecnici quando la funzione idrica viene meno. Qui, invece, la storia sembra essersi chiusa: l’opera non è più dentro un ciclo di utilità e, quando un’infrastruttura smette di essere utile, diventa, inevitabilmente, una domanda aperta per l’amministrazione e per la comunità. La si mantiene? La si recupera? La si mette in sicurezza? La si trasforma? O, più semplicemente, la si rimuove?

In questo caso, la risposta è netta: demolire. E la scelta, letta con uno sguardo un po’ più ampio, dice molto del modo in cui le città contemporanee gestiscono l’eredità materiale del Novecento. Le torri piezometriche e i serbatoi pensili, soprattutto quelli costruiti tra anni Cinquanta e Sessanta, hanno rappresentato un’idea di modernità concreta: portare acqua con continuità, garantire pressione, rendere più affidabile una rete che, in tante aree, stava passando da soluzioni parziali a sistemi più strutturati. Erano opere utilitarie ma anche monumentali nel senso più quotidiano del termine: alte, visibili, spesso collocate in punti strategici, capaci di diventare riferimenti nel paesaggio urbano.

A Castel Bolognese questa dimensione storica è sottolineata dalla data e dal contesto di nascita dell’opera: la costruzione risale agli anni Sessanta, fu terminata nel 1964 e venne inaugurata alla presenza dell’onorevole Benigno Zaccagnini. È un dettaglio che, da solo, rimette la torre dentro un’epoca precisa: l’Italia del boom economico, delle infrastrutture che si moltiplicano, dell’idea che servizi e reti siano una promessa pubblica di benessere e stabilità. E, allo stesso tempo, è un dettaglio che chiarisce quanto sia lunga la vita materiale delle opere: la politica e la società cambiano, le tecnologie cambiano, ma un manufatto può restare lì per generazioni.

La parola torre piezometrica merita anche una breve pausa di riflessione: le strutture di cui fa parte servono a gestire la pressione dell’acqua nella rete, poiché l’altezza crea una spinta naturale che aiuta a distribuire l’acqua in modo più regolare, soprattutto in presenza di dislivelli o quando la rete deve compensare variazioni di consumo. Per molti decenni, prima che la gestione idrica si appoggiasse in modo più esteso su impianti e logiche diverse (serbatoi a terra, stazioni di pompaggio, telecontrollo, reti più robuste), la torre piezometrica è stata una risposta efficace e relativamente semplice al dare stabilità a un servizio essenziale.

Ma quando le reti evolvono, le strutture possono diventare ridondanti. E la ridondanza, che in ingegneria talvolta è una virtù (avere alternative, margini, riserve), in gestione urbana può trasformarsi in un costo: manutenzione, verifiche, responsabilità, vincoli. Se l’opera non serve più e non ha un ruolo alternativo, mantenerla può voler dire tenere in vita un oggetto che non produce beneficio equivalente.

Naturalmente, ogni demolizione è anche un evento simbolico, che va oltre la logica del cantiere: l’impatto reale è più profondo, perché cambia il modo in cui un luogo appare. Eppure, proprio perché è un’operazione che agisce sul paesaggio, la demolizione diventa anche un’opportunità. Quando un manufatto grande scompare, si aprono domande urbane: come verrà sistemata l’area? Resterà una semplice porzione di suolo tecnico? Diventerà un punto più ordinato, più sicuro? Ai posteri, la sentenza.